lunedì 18 febbraio 2013

L'origine storica dei Giochi di Carte


L'origine storica dei Giochi di Carte

Un pò di storia...

Non è certo se le carte siano un’invenzione cinese risalente al secondo millennio a.C., venuta attraverso l’India per mezzo degli arabi che le chiamavano "naibbe (na’ib), o se siano una derivazione indiana degli scacchi; sembra certo però che non siano state inventate in alcun paese d’Europa.
Secondo una suggestiva credenza le origini delle carte da gioco sarebbero molto più antiche e risalenti agli egizi ed in particolare al dio Thot che volendo insegnare agli uomini l’arte della scrittura inventò i geroglifici la cui evoluzione portò all’equiparazione degli stessi con i numeri e i semi delle carte.

Le carte da gioco furono un’invenzione che piacque subito e molto; si giocava nelle case, nelle taverne, per la strada, nelle case dei poveri, dei ricchi, dei nobili e anche nei conventi perché all’interno di queste strutture operavano calzolai, maniscalchi, muratori, ebanisti, fornai, sarti, tutti al servizio della comunità dei monaci, dai quali dipendevano; il vivere insieme dei religiosi con i laici ha comportato che la passione delle carte si diffondesse e coinvolgesse gli uni e gli altri.
La voglia di giocare diventò così frenetica da provocare l’intervento delle autorità religiose; il motivo dei divieti era da ricercare nella funzione che, in quell’epoca, veniva attribuita ai luoghi religiosi e a coloro che avevano pronunciato i voti e perciò tenuti alla massima morigeratezza nei costumi; la violazione dei centri religiosi con manifestazioni di vita mondana attuava un pericoloso impedimento sulla via della santità.
Tra i laici furono soprattutto i sovrani spagnoli ad imporre i divieti più pesanti sul gioco delle carte considerato uno strumento di corruzione, sregolatezza e malcostume.

Le prime carte erano tavolette sottili di legno e, per i più raffinati, tavolette di avorio, dipinte, ornate con figurine eleganti; nel Medio Evo venivano fatte a mano libera o in lamine d’oro.
La prima fabbrica italiana di carte da gioco sorse a Bologna; non a caso, perché Bologna era il centro primario per gli scambi culturali e mercantili sia nazionali sia europei. Le prime carte bolognesi, risentendo degli influssi orientali, non riportavano effigi di dame, cavalieri, fanti perché il Cora[enne]o vietava la rappresentazione di figure umane e consentiva soltanto numeri. Ben presto, però, la fabbrica bolognese diventò un grande laboratorio di miniature e cominciarono a comparire le prime figure con i costumi appariscenti del tempo.

Sul finire del Trecento, a Firenze, per rimpinguare le casse dell’erario, le autorità comunali decisero di imporre una tassa sulle carte da gioco, considerate beni voluttuari e di divertimento sia per ricchi sia per poveri.
Infatti la causa principale della diffusione delle carte da gioco é certamente la radicata tendenza alla ricerca della distrazione e del divertimento nel tempo libero; la motivazione é data molto spesso dall’aspettativa di vincita soprattutto quando questa é rappresentata da un premio e, dunque, dalla possibilità di un guadagno fondato sul rischio.
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-I semi delle carte francesi

Un discorso a parte è quello delle carte da gioco francesi. In Francia le carte sono arrivate dalla Spagna grazie ai mercanti arabi e nel XIV secolo i francesi avevano già introdotto, nei loro mazzi di carte, i semi di Cuori, Quadri, Picche e Fiori. Quest’ultimo seme, in seguito, fu sostituito da Trifogli perché si riteneva avesse un significato magico.

La magia del trifoglio, proveniente dalla tradizione celtica e considerato sacro dai Druidi perché associato alle romantiche storie dei folletti dei boschi, ha finito per assumere un contenuto e un significato magico.
E’ così che si affermò il gioco d’azzardo, la frode, la rivincita, le puntate, ....

In tutti i governi degli stati rinascimentali nasce così l’esigenza di bloccare il gioco quando la posta in palio è rappresentata da somme di denaro; così in Francia ma anche in Italia, in particolare in Toscana, viene adottata una sorta di "tassa sull’immoralità": chi gioca deve pagare una pesante multa da incamerare all’erario dello stato per fronteggiare le spese necessarie alla sorveglianza.



 I semi delle carte italiane

Spade, coppe, denari, bastoni sono, in genere, i semi delle carte da gioco italiane; molto probabilmente l’origine di questi semi deriva da interpretazioni arabe radicate in Spagna.
Gli arabi, infatti, dopo aver conquistato l’oriente, dirigono le loro conquiste al Mar Mediterraneo ed in particolare alla penisola iberica e successivamente alla Sicilia (le "spade" che su molte carte regionali vengono rappresentate come scimitarre, curve e dalla punta triangolare evocano l’epopea degli arabi in Spagna e in Sicilia), dove insegnano il sottile piacere del lusso, dell’abbondanza ("coppe"), mediante la costruzione di palazzi sontuosi con stanze decorate d’oro ("denari"), giardini profumati di zagare, tralci di vite e di edera avviluppati su superbe colonne; l’immagine evoca l’idea di "bastoni" fioriti, simbolo di forza, passionalità, durezza.
Successivamente compaiono le "figure" in onore ai Signorotti sontuosamente vestiti siano essi "cavalieri" pronti ad allietare le "dame" con poesie e madrigali o contadini decisi a trasformarsi in "fanti" quando diventa necessario difendere il padrone per il quale lavorano.
Nell’ultimo trentennio del Quattrocento, in Francia, iniziano a circolare delle carte molto colorate e con semi diversi da quelli italiani e con "figure" che assumono significati anche esoterici.
Cuori, picche, quadri, fiori (trifogli) impressi sulle carte francesi hanno, anche in Italia, una forte presa soprattutto nel Piemonte, Liguria, Lombardia e Toscana.
Nel secolo XV le carte di Francia, come in altri paesi, assumono soggetti svariati: uomini e donne celebri nella storia vengono raffigurati come Re, Regine e Fanti. Nel secolo XVIII le carte da gioco francesi contengono raffigurazioni di personaggi della Rivoluzione francese e nel secolo successivo si modificano di nuovo ispirandosi ai personaggi dell’epoca napoleonica.
In Italia, poi, ogni regione ha sempre interpretato la realtà secondo i propri criteri e secondo la propria visuale di vita e ciò spiega la presenza di mazzi di carte da gioco diversi da regione a regione (napoletane, bergamasche, piacentine, siciliane, milanesi, trevigiane e tanti altri tipi).

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lunedì 11 febbraio 2013

Malachia : Benedetto XVI è il penultimo dei pontefici


Secondo la profezia di Malachia Benedetto XVI è il penultimo dei romani pontefici. San Malachia fu un vescovo irlandese autore, nel 1140, di previsioni sul futuro del papato.

Le profezie indicano, con una metafora breve, la storia della Chiesa romana, da Celestino II (1143-1144) a Pietro II, che dovrebbe essere l'ultimo Papa, dopo Joseph Ratzinger, da poco insediato con il nome Benedetto XVI, forse destinato a gestire un periodo di guerre che prepareranno l'ultimo tragico pontificato.

Il pontificato di Pietro II, dopo Ratzinger, viene più dettagliatamente descritto dal 'profeta'. Nel testo di pronostico si dice che Santa Romana Chiesa verrà perseguitata, che il nuovo Pietro 'pascerà il suo gregge tra molte tribolazioni', che Roma sarà distrutta e che 'il terribile giudice giudicherà il suo popolo. E così sia!'

Papa Benedetto XVI è il 111° pontefice della storia della Chiesa. La nota "profezia di Malachia" riguarda il 112º papa, Petrus Romanus: presagisce la fine della Chiesa e la distruzione di Roma dopo l'ascesa al soglio pontificio dell'ultimo papa.

Secondo alcune ricostruzioni, potrebbe essere Benedetto XVI stesso il Pietro Romano di Malachia, ritenendo che il pontificato di Giovanni Paolo II sia da dividere in due motti, prima e dopo l'attentato da parte di Ali Agca. C'è anche l'ipotesi secondo cui la profezia su Petrus Romanus non sarebbe il motto di un papa ma la descrizione del pontificato di Benedetto XVI.

Un'altra interpretazione ipotizza che Pietro Romano non sia riferito a un Papa, bensì al Cardinal Camerlengo che, alla morte del pontefice regnante, fa le veci del Pontefice in attesa dell'elezione del successore. Si nota che l'attuale Camerlengo è il Cardinale Tarcisio Pietro Evasio Bertone, nato a Romano Canavese nel 1934. Si fa notare la coincidenza che nel suo nome completo sia contenuta la parola Pietro e nella sua località di nascita ci sia la parola Romano. 


L’annuncio a sorpresa, dato stamani dallo stesso Benedetto XVI, delle sue imminenti dimissioni ha riportato alla mente degli studiosi di storia esoterica della Chiesa la famosa “profezia di Malachia”, la lista di 111 (o 112, a seconda delle versioni) brevi frasi in latino indicanti altrettanti pontefici, da alcuni ritenute una premonizione attribuita a San Malachia di Armagh circa la fine del mondo.
Secondo alcune interpretazioni di questa lista, Papa Benedetto XVI sarebbe il penultimo, e l’elenco si concluderebbe con un Papa descritto come “Petrus Romanus” il cui pontificato, stando alla profezia, terminerà con la distruzione della città di Roma e, probabilmente, la contemporanea fine del mondo. Nella lista – che, secondo la tradizione, sarebbe stata redatta o dettata dal santo nel 1139 durante una sua visita a Roma – sono descritti in poche righe i caratteri salienti di tutti i Papi (compresi alcuni antipapi) partendo da Celestino II, eletto nel 1143. Ma in molti, compresa l’ultima edizione dell’Enciclopedia Cattolica, sostengono che la profezia sia un falso del XVI secolo. In realtà le profezie sarebbero state redatte dal falsario umbro Alfonso Ceccarelli allo scopo di influenzare i cardinali che prendevano parte al Conclave del 1590.

LEGGI ANCHE  http://cipiri.blogspot.it/2013/02/benedetto-xvi-lascio-per-il-bene-della.html


Benedetto XVI : Lascio per il bene della Chiesa


 Ecco le dichiarazioni con le quali il Papa annuncia le dimissioni:

Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero,,,
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sabato 2 febbraio 2013

Il giullare di corte ed il menestrello di strada


Nel Medioevo c’erano due tipologie di cantori, il giullare di corte ed il menestrello di strada. Il giullare di corte per l'appunto cantava nella corte, ossia nell’ambito del monarca e dei suoi collaboratori. Il giullare di corte durante i suoi spettacoli prendeva in giro il re, ma si guardava bene dal superare certi limiti. Non si burlava della sua attività politica e né si azzardava ad oltrepassare i limiti impostigli. Il menestrello invece operava per strada e faceva ironia tagliente su tutti i potenti dell’epoca, dal monarca al Papa. Il giullare di corte viveva pasciuto sedendo alla tavola del monarca, il menestrello rischiava quotidianamente la vita e viveva in costante stato di fuga. Il primo faceva il buffone, l’altro scuoteva le coscienze con il sorriso amaro, faceva satira.


Il menestrello (dal provenzale menestrals, "servo di casa") era, in età feudale, l'artista di corte incaricato all'intrattenimento del castello. Svolgeva mansioni di musicista, cantastorie, poeta o giullare.
Fu una figura presente principalmente nella Francia e nell'Inghilterra medievale.
Era spesso ingaggiato per singoli spettacoli, in occasione di ricorrenze particolari ed eseguiva perlopiù brani già composti probabilmente da un trovatore.Come il bardo per le popolazioni celtiche, il menestrello poteva essere un cantore di gesta eroiche compiute dal proprio signore. In alcuni casi, si trattava di un semplice buffone con abilità di giocoleria e aveva il solo scopo di divertire il pubblico.
I menestrelli più abili erano in grado di comporre delle tenzoni di livello paragonabile alla poesia trobadorica.
Anche i comuni usavano assumere i menestrelli affinché cantassero la bellezza della città.
In altra epoca e luogo, dal 1840 circa, fino ai primi del XX secolo, lo spettacolo leggero americano fu dominato dai cosiddetti minstrel shows, spettacoli di menestrelli: spettacoli teatrali improvvisati su un canovaccio, e spesso accompagnati dalla musica. Con l'andare del tempo queste esibizioni, che non erano stabili ma erano spettacoli di strada, presero ad assumere delle caratteristiche standard, che fissavano l'abbigliamento del menestrello, ed i ruoli, caratterizzati, che egli interpretava. Tuttavia la chiesa non aveva un atteggiamento positivo nei loro confronti, e quindi, li condannava; inoltre, siccome i loro componimenti non venivano scritti, ma si tramandavano solo oralmente, a noi oggi non è pervenuto nulla. Si trovavano nel epica cavalleresca. Il menestrello era anche uno strumento sociale di grande valore, infatti manteneva gli uomini a contatto con costumi ed ambienti diversi.



Il termine giullare (dal provenzale (occitano) joglar a sua volta derivante dal lemma latino iocularis) designa tutti quegli artisti che, tra la fine della tarda antichità e l'avvento dell'età moderna, si guadagnavano da vivere esibendosi davanti ad un pubblico: attori, mimi, musicisti, ciarlatani, addestratori di animali, ballerini, acrobati.
Nel Duecento e nel Trecento i giullari, uomini di media cultura (molto spesso chierici vaganti per le corti o per le piazze) che vivevano alla giornata facendo i cantastorie, i buffoni e i giocolieri, divennero il maggior elemento di unione tra la letteratura colta e quella popolare.
Costoro erano guardati con sospetto dalla Chiesa cattolica che ne condannava il modello di vita e i canti.
I giullari, considerati i primi veri professionisti delle lettere perché vivevano della loro arte, ebbero una funzione molto importante nella diffusione di notizie, idee, forme di spettacolo e di intrattenimento vario.
Essi svolgevano la loro attività in diversi modi e utilizzavano le tecniche più disparate, dalla parola alla musica, alla mimica. Utilizzavano diverse forme metriche come l'ottava, lo strambotto e le ballate, e si applicavano in generi letterari e temi diversi. Tra i più ricorrenti vi era il contrasto, l'alba (cioè l'addio degli amanti al sorgere del sole), la serenata alla donna amata, il lamento della malmaritata.
« Un giullare è un essere multiplo; è un musico, un poeta, un attore, un saltimbanco; è una sorta di addetto ai piaceri alla corte del re e principi; è un vagabondo che vaga per le strade e dà spettacolo nei villaggi; è il suonatore di ghironda che, a ogni tappa, canta le canzoni di gesta alle persone; è il ciarlatano che diverte la folla agli incroci delle strade; è l'autore e l'attore degli spettacoli che si danno i giorni di festa all'uscita dalla chiesa; è il conduttore delle danze che fa ballare la gioventù; è il cantimpanca [cantastorie]; è il suonatore di tromba che scandisce la marcia delle processioni; è l'affabulatore, il cantore che rallegra festini, nozze, veglie; è il cavallerizzo che volteggia sui cavalli; l'acrobata che danza sulle mani, che fa giochi coi coltelli, che attraversa i cerchi di corsa, che mangia il fuoco, che fa il contorsionista; il saltimbanco sbruffone e imitatore; il buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini; il giullare è tutto ciò e altro ancora. »



Nell'età moderna la figura del giullare - nell'accezione particolare di attore affabulatore - è stata resa celebre da Dario Fo che proprio nella "maschera" del giullare si è identificato quando nel 1968 ha rotto con il circuito istituzionale dell'Ente Teatrale Italiano ed ha iniziato ad esibirsi nelle Case del Popolo gestite dall'ARCI. È altresì evidente che quella di Fo è un'operazione di recupero storico non condotta secondo canoni filologici: come osserva Tito Saffioti, Fo attribuisce ai giullari una coscienza politica consapevolmente oppositiva al potere che forse i giullari medievali non ebbero mai. Oltre ai giullari di strada che si esibivano davanti ad un pubblico popolare (si ricordino Ruggeri Apugliese, che forse proveniva però da un ambiente colto e Matazzone da Caligano), esistevano infatti anche "buffoni di corte" e "canterini comunali" i cui spettacoli erano destinati ad un pubblico ricco e colto (si ricordi Andrea da Barberino). Negli ultimi anni è nata una nuova forma di giullarata applicata al teatro civile portata avanti da Giulio Cavalli, utilizzando tecniche antiche per affrontare temi estremamente moderni come il G8 di Genova del 2001 o il disastro aereo di Linate. Un esempio di "giullare moderno" è la figura contemporanea del comico satirico, molto diffusa anche in Italia.

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venerdì 1 febbraio 2013

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